Gino De Dominicis, artista da scandalo prima di Cattelan e Hirst - Il Messaggero

ROMA (18 giugno) - Era uno degli artisti più originali della seconda metà del secolo scorso in campo internazionale, Gino De Dominicis, il pittore che campeggia con una retrospettiva di 130 opere, curata da Achille Bonito Oliva al Maxxi di Zaha Hadid (catalogo Electa, sino al 7 novembre).

Nato ad Ancona nel 1947, doveva essere stato folgorato sin dai primi anni di vita, se non sin dalla nascita, da un sole nero. Frequenta ancora le elementari quando la maestra, un giorno, assegna il tema: «Descrivete il panorama che vedete dalle finistre della scuola». Lui descrive un funerale. Disegnatore precoce, schizza necropoli, scheletri, teschi, luoghi cupi e funesti, motivi ispirati al tema Eros-Thanatos. E’ posseduto dall’istinto di morte, che combatte tentando di creare opere che sopravvivano al tempo, o a quella che Platone chiamava «l’immagine mobile dell’eternità».

Egon Schiele diceva che l’arte non può essere moderna, in quanto ritorna eternamente alle origini. I cultori della pittura ad encausto si rifanno all’Egitto dei Faraoni, come gli scultori greci si rifacevano agli scultori egiziani. Picasso si rifaceva alla scultura negra. Balthus, Carrà, Yves Klein si rifacevano a Giotto. Bacon si rifaceva a Cimabue, alla Crocifissione di Cimabue.

Gino De Dominicis retrocedeva molto più indietro nel tempo, verso un’arte antidiluviana, un’arte dell’avanstoria, precedente la stessa preistoria. Andava alla ricerca della radice prima del pensiero, della genesi assoluta della creatività artistica. Con un volo a ritroso vertiginoso, si richiamava a Gilgamesch, l’eroe solare della mitologia sumerica, il re dell’antichissima città irakena di Uruk, il quale, oltre che guerriero, era poeta, pittore, scultore, architetto e realizzava opere destinate a superare il ciclo inarrestabile del tempo. In omaggio a Gilgamesh, Gino De Dominicis creava opere che definiva invisibili e delle quali vietava la riproduzione: volti di personaggi dalle fisionomie aliene, alla stregua di graffiti su superfici monocrome, gli occhi oblunghi come quelli delle sculture khmer, i nasi lunghissimi e i sorrisi enigmatici. Quale emulo di un demiurgo come Gilgamesh, per un terzo uomo e due terzi Dio, si firmava talora D’Io.

Gino De Dominicis giunge a Roma nel 1967. Bel tenebroso o dandy baudelairiano, sempre ammantato di nero, cappello di astrakan sui capelli neri lisci fluenti, aria distante e andatura aristocratica, si staglia nello spazio come un tableau vivant, un personaggio di Van Dyck. Incomincia ad esporre nello stesso anno.

1967: Asta in perfetto bilico sulla punta aguzza. 1968: La macchina che fa scomparire gli oggetti.1969: Lo specchio che riflette tutto tranne gli esseri viventi, Tentativo di far formare dei quadrati invece dei cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua, Gli oggetti invisibili, Tentativo di volo, Il tempo, lo sbaglio, lo spazio, una scultura che comprende uno scheletro umano steso a terra con dei pattini ai piedi, lo scheletro di un cane al guinzaglio e un manifesto con il suo nome listato di nero come un annuncio funebre. 1970: pubblica la Lettera sull’eternità in cui scrive: «Io penso che le cose non esistano. Per esistere veramente dovrebbero essere eterne, immortali. Raggiungendo l’immortalità l’uomo, forse per la prima volta dalla sua comparsa sulla terra, potrebbe realmente differenziarsi dalle altre specie viventi». 1970: crea lo Zodiaco, che viene definito l’opera più visionaria dell’arte del ventesimo secolo.

1972: lo scandalo. Uno degli scandali più inauditi della storia dell’arte moderna, che annulla l'accozzaglia neoavanguardistica dei copertoni d’automobile di Rauschenberg, delle lepri morte di Beuys, della “Merde d’artiste” di Manzoni, delle muraglie di carbone di Kounellis, della donna nuda di Vito Acconci appesa al soffitto a Kassel, etc.etc. Presenta alla Biennale di Venezia la Seconda Soluzione d’Immortalità (L’Universo è Immobile), in cui un ragazzo con sindrome di Down, Paolo Rosa, osserva un Cubo invisibile. Il suo nome esplode sui mezzi di comunicazione di massa di gran parte del pianeta, ma il mondo ufficiale lo cancella dal novero degli artisti viventi. Dichiara Gino De Dominicis: «Non hanno capito nulla. Il down Paolo Rosa rappresenta il paradigma dell’immobilità del corpo, ossia la sconfitta del tempo e la conquista dell’immortalità. San Tommaso non ha definito Dio “Motore Immobile”?». Nel 1975 Eugenio Montale, nel discorso dinanzi all’Accademia di Svezia per il Nobel, paragona l’autore della Seconda Soluzione d’Immortalità a Rembrandt e a Caravaggio.

1980: rifiuta di inviare a Kassel la sua foglia d’oro su tavola di compensato. 1982: Una sua opera intitolata NO viene acquista dal Museum of Modern Art di New York. 1985: Rifiuta di tornare a Venezia ma accetta il Premio Internazionale per la pittura alla Biennale di Parigi. 1990. espone la gigantesca scultura Grande Scheletro. 1996: Il suo uomo con un cappio al collo anticipa i bambini impiccati esposti da Cattelan a Milano. Forse anche il Damien Hirst dei teschi indiamantati gli deve qualcosa.

Gino De Dominicis era anche spiritoso. Diceva: «Io Roma la detesto. Perché ci sto? Perché c’è Gino De Dominicis». Egli creava le sue opere invisibili in uno studio in Via San Pantaleo, presso Piazza Navona, nel piano nobile di un palazzo patrizio. Uno studio magnifico, luminoso, solare, allietato da adolescenti balthusiane che scattavano a passo di danza a ogni minimo cenno del Maestro. Ma nella notte del 28 novembre del 1998, dopo aver cancellato ogni traccia del suo passaggio sulla terra, questo divinus deus della pittura era scomparso, come era scomparso qualche secolo prima Mathis Grunewald, il leggendario autore del grandioso altare di Isenheim. Nessuno ne aveva visto il corpo. Di qui la voce ch’egli fosse trasmigrato in altro luogo, in Uruk o altrove, o si fosse dematerializzato, conquistando l’immortalità. Flash Art lo definisce «un enigma», i critici più avveduti lamentano la sparizione di un artista di «immenso talento».

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